Riconfigurazione degli spazi museali, dialoghi visivi a cavallo di ogni epoca, focus sul linguaggio al di là dello scandalo. Ma soprattutto l’ambizioso obiettivo di farsi produttori, a partire da Robert Mapplethorpe, di nuova arte coreografica. Al Madre di Napoli, una mostra che non è solo una mostra.
E si arriva infine al climax espositivo, la sala centrale e più ampia, resa palcoscenico dal tappeto rosso per gli interventi danzati. È qui che la sezione Autoritratti scivola nel rischio descritto all’inizio: le foto, piccole e in allestimento essenziale, si sperdono e scompaiono quasi come tappezzeria o scenografia, talora, dietro i danzatori in azione. Ma è uno scivolamento in parte benefico, che sottolinea al meglio come, nella propagazione creativa a cavallo di ogni tempo, di cui lui stesso ha beneficiato, anche l’arte di Mapplethorpe si faccia ora inizio per nuova arte coreografica. Seme presente per Oliver Dubois e Luna Cenere più nel mood, in Vadim Stein con Anna Gerus e Matteo Stella Dance Arts con riferimenti formali più immediati.
Come ogni spettatore attivamente coinvolto, il viso di Mapplethorpe accetta di calare discretamente nell’ombra alle spalle, impersonando bene il suo esserci e non esserci tra presentazione e rappresentazione, eternando il suo sguardo – vero protagonista finale ‒ su un corpo che recita, ma non è, meramente se stesso. Nella metafora della danza tra il reale e il suo inganno, che lo ha irretito anche biograficamente facendogli trovare morte nell’esasperata ricerca d’amore.
By Diana Gianquitto – artribune.com
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