L’ANSIA DEL VIVERE CI COGLIE QUANDO SIAMO AL COSPETTO DI ENTITÀ GIGANTESCHE E MOSTRUOSE OPPURE DI ELEMENTI TALMENTE PICCOLI DA ESSERE INVISIBILI E INTANGIBILI COME I VIRUS. PUÒ L’ARTE AIUTARE A ESORCIZZARE LE FOBIE DELL’UOMO MODERNO?
Le opere d’arte che creano un cortocircuito cerebrale, tra ciò che viene visto e il significato che l’artista attribuisce a esso, danno vita a una ben precisa condizione neuroestetica definita dal famoso scienziato Vilayanur Ramachandran enigma percettivo, condizione che mette a dura prova la memoria di lavoro. La conseguenza di ciò è una maggiore stimolazione dei recettori delle aree neuronali, situate nei lobi prefrontali, deputate alla gestione dei pensieri creativi e al controllo cosciente della memoria, strutturandola in immagini mentali che nel caso dello squalo di Hirst veicolano le idee di orrore e angoscia.
Ma come è possibile che, dall’alto del progresso tecnologico e della complessità dell’evoluzione culturale, il nostro cervello subisca inerme lo scacco matto delle emozioni?
Per cercare di dare una spiegazione occorre riferirci a un altro concetto neurocognitivo, quello di neotenia, ossia il permanere di caratteristiche giovanili in età adulta. A differenza delle altre specie, i cuccioli di uomo, infatti, imparano molto tardi a compiere delle azioni elementari come il camminare o il coordinare i movimenti degli arti e organizzare il linguaggio. Una situazione drammatica questa, se fossimo nati in una foresta o nelle profondità oceaniche, con l’alta probabilità di incontrare precocemente dei predatori.
Un cervello che matura tardi dà però la possibilità di essere più lungamente plasmato dall’esperienza, accumulando una notevole mole di dati per un tempo maggiore. Sono questi dati che, ripresi in età adulta, permettono di creare mondi finzionali, idee o soluzioni innovative ai problemi della vita. Paghiamo la nostra intelligenza creativa con il prezzo di avere un cervello maggiormente sensibile e “impressionabile”, proprio come una pellicola fotografica, per alcuni decenni dopo la nascita o, come affermano alcuni autori, addirittura per tutta la vita.
Dal punto di vista anatomico questa condizione si manifesta con la cosiddetta plasticitàneuronale. Ciò significa che le terminazioni nervose di ogni singola cellula del nostro cervello sono in una condizione di rimaneggiamento continuo, in maniera direttamente proporzionale a quel che impariamo e agli stimoli che riceviamo dal mondo esterno attraverso le meccaniche del nostro corpo (embodiment). Ogni variazione di questi pattern neurali si ripercuote sull’intera impalcatura cerebrale come in un continuo gioco tensegritivo tra strutture rigide (memorie archetipali) ed elementi elastici (nuove informazioni).
Damien Hirst, Standing Alone on the Precipice and Overlooking the Arctic Wastelands of Pure Terror (1999 – 2000)
Con le loro opere artisti come Hirst stimolano lo spettatore a superare i meri confini della corporeità edonistica, invitando a elevare la coscienza verso i grandi interrogativi dell’umanità. Durante questa partecipazione esperienziale, i sentimenti di orrore, ripugnanza e terrore svolgono un ruolo catartico, incenerendo le loro interferenze emozionali nella genesi del pensiero cosciente. Per questo gli animali senza vita, oggetto delle altre opere di Hirst, si presentano dissezionati ma, se visti da altre angolazioni, appaiono conservare artificialmente la loro vis vitalis. Nelle mani dell’artista, i corpi diventano un giocattolo smontabile che, una volta perso il tegumento esterno, rivela i contenuti meccanici alla base dello stare al mondo. Queste opere vivono una sorta di simmetrica ambiguità, una lettura doppia nella quale gli effetti nella mente di chi osserva sono simultaneamente antitetici.
Abbiamo tutti noi sperimentato una parte di queste condizioni dovute alla pandemia da Covid-19 che, come uno tsunami improvviso, ha travolto inesorabilmente le nostre vite proiettando ombre inquietanti sul futuro. Una crisi inattesa che ha influenzato anche il mondo dell’arte e le capacità creative ed espressive degli artisti.
È degno di nota però come la parola crisi contenga in nuce l’idea di rinnovamento. Per esempio l’ideogramma cinese weiji, che rappresenta la parola crisi, è costituito da due simboli, uno che significa “pericolo” e l’altro “occasione/opportunità”.
Se è evidente che la crisi diviene un sinonimo di rigenerazione, passaggio obbligato per mettere in dubbio le certezze, è anche vero che essa dà la possibilità di scoprire nuovi processi e inaspettate risorse. Uno sguardo sulla contemporaneità dell’arte attraverso le lenti focali della neuroestetica ci permette quindi, anche in tempi infausti, di comprendere le meccaniche neuronali alla base dello stress, condizione che può contribuire a restituire all’arte e alla creatività il loro ruolo elettivo, nel promuovere la genesi di una visione alta del senso della vita piuttosto che vederla diluirsi in una improduttiva ansia perenne.
By Angela Savino & Ottavio De Clemente – artribune.com
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