Organizzazione Artistica Arte Moderna e Contemporanea
Giorgio Di Genova
Storico dell’arte Giorgio di GenovaGiorgio Di Genova (Roma, 23 ottobre 1933) è uno storico dell’arte italiano, noto per essere autore dei volumi intitolata Storia dell’arte italiana del ‘900per generazioni in 10 tomi.
Laureatosi in Storia dell’arte all’Università La Sapienza di Roma con una tesi su Silvestro Lega, iscritto al Partito Comunista Italiano, da cui è uscito nel 1956, dopo i fatti di Ungheria, ha intrapreso una lunga attività di critico e storico dell’arte, oltre che di curatore di esposizioni e allestimenti museali. È autore di numerose monografie[1].
Nel 1975 ha fondato la rivista trimestrale d’arte Terzo occhio, edita da Bora, di cui è stato il coordinatore fino al 2006. Nel 1984 è stato commissario per il padiglione italiano alla XLI Biennale di Venezia, invitando Antonio Bueno, Mario Padovan e Novello Finotti, mentre nel 1993 è stato nella commissione per la XII Quadriennale di Roma.
Nel 1980 ha ideato e curato per la Provincia di Rieti le Biennali Nazionali d’Arte Contemporanea, avviate con Generazione anni Venti, a cui ha affiancato al posto del consueto catalogo un volume. Dopo aver curato la Biennale Generazione anni Dieci (1982) e Generazione primo decennio (1985), per dissensi insanabili ha interrotto i rapporti con la Provincia di Rieti e nel 1990 ha riavviato per la Edizioni Bora di Bologna la stesura dei volumi, riveduti ed ampliati, della Storia dell’arte italiana del ‘900, impresa conclusa il 2010 con la pubblicazione dell’Indice generale dei nove tomi.
Nel 1999 è stato tra i fondatori del MAGI ‘900, concepito come un’antologia dell’arte italiana del Novecento e allestito secondo criteri cronologici e generazionali, in modo da essere il corrispettivo museale del contenuto della sua Storia dell’arte[2]. Di Genova ne è stato anche direttore artistico fino al 2006, anno in cui ha rassegnato le dimissioni per contrasti con il proprietario. Nel 2008 è stato nominato dalla Camera di Commercio di Vibo Valentia curatore artistico del Premio Internazionale Lìmen Arte da lui ideato e avviato nel 2009. Nel 2011 ha fatto parte della Commissione inviti per la 54^ Biennale di Venezia, Lo stato dell’arte”.
TESTI CRITICI
Ho sempre ritenuto le mostre bine, cioè di due artisti in contemporanea, il modo migliore per permettere di intendere il linguaggio di ciascuno dei due espositori, proprio perché le soluzioni di uno sono molto utili a far percepire le differenze e, qualora ce ne fossero, le concomitanze dell’altro e viceversa. Proprio per tale ragione, quando dirigevo il MAGI ‘900 a Pieve di Cento (BO), evitavo di fare personali, sostituendole con esposizioni dal titolo Confronti da Museo. In esse proponevo appunto personali per lo più di due artisti di diversa concezione e linguaggio, in qualche caso addirittura di opposta ottica, accoppiando un artista iconico ad uno aniconico.
La presente esposizione di Renzo Eusebi e Marcus Amaral per taluni aspetti presenta qualche similarità con i confronti di opposta ottica. Infatti all’aniconismo geometrico di Eusebi si contrappone il discorso tra aniconico e paraiconico di Amaral. Nonostante tutto però un elemento basilare, per così dire, li accomuna ed è l’intermediarità, poiché sia Eusebi che Amaral realizzano quadri intermedi e sculture intermedie.
Infatti i dipinti di Eusebi sono quadri intermedi, in quanto, giustapponendo diversi elementi di colori differenti, derogano dalla bidimensionalità e diventano bassorilievi. Altrettanto è per le sue verticali e filiformi sculture ottenute con la medesima giustapposizione di elementi di diverso colore, recuperando a suo modo una componente originaria della scultura classica, che, come è noto, era appunto colorata.
Anche le opere di Amaral, allorché sono bidimensionali, si presentano come quadri intermedi, ed allorché sono tridimensionali appaiono ancora più intermedi, per la loro incompletezza.
Le contrapposizioni appaiono di tutta evidenza nelle tecniche usate. Se Eusebi, dopo i precedenti periodi, il primo più lontano di opere neosurrealiste, in cui declinava in modi personali sia la lezione del Fontana del Buchi che il materismo di Burri, compresi gli inserimenti di indumenti personali nel magma materico, e il secondo di dipinti squisitamente materici, per lo più monocromatici, e di sculture metalliche dipinte; se Eusebi, dicevo, dopo questi due periodi ha via via prosciugato la materia pittorica, giungendo a stesure compatte e piatte dei tre colori primari, sulla scorta della lezione di Mondrian, approdando ad un purismo pittorico pulito e illuminato bene; la tecnica di Amaral gronda materismo policromatico sia quando in opere pressoché bidimensionali tesse o intrecci gli scheletri (e stavo per scrivere “anime”), ossia i suoi fili di ferro che ricopre, appunto, di polpa cromatica, facendo altrettanto nelle opere tridimensionali, in cui i fili di ferro servono a formare, più o meno come faceva Francis Bacon nei suoi dipinti, reificati disegni di gabbie, che poi riempie con teste ed altri elementi incompleti appesi, creando appunto sculture intermedie, che per la tecnica a me ricordano, nonostante gli spunti iconici, il discorso informale del tedesco Bernard Schultze.
Anche la concezione spaziale di Eusebi e di Amaral divergono. Quanto il primo con un gesto, che ricorda i Mobiles di Calder, appende i suoi quadri intermedi in alto esalta il suo concretismo, scaturito dalla conquista dell’esprit de géométrie, altrettanto il secondo proietta nel suo materismo ai bordi della putrescenza simbologie esistenziali, che ricorda (e non poco, al di là delle differenze) il Giacometti de Il naso.
Non a caso la spazialità dei due nostri artisti diverge, essendo logica e razionale quella dell’artista italiano e allarmante e allarmata quella dell’artista brasiliano.
Le loro divergenze si evidenziano nella installazione che propongono assieme. In essa Eusebi esprime simbolicamente il suo giudizio sull’attuale situazione mondiale dominata da conflitti sanguinosi (camice bianco macchiato da rosso sangue) e dall’autolesionismo umano (le aste col cappio, simboli appunto della perseveranza nel non provvedere a salvaguardare il clima), mentre Amaral con la distesa formata da quella sorta di azzurri contenitori di plastica allude al gravissimo inquinamento marino in atto. In questa distesa di “onde” l’artista brasiliano rivela un aspetto che è tipico delle sue bidimensionali opere a intreccio, cioè la sua tendenza all’iterazione, che non è estranea neanche all’artista italiano, ma con la differenza che Amaral è più portato all’iterazione monocorde, mentre Eusebi lo è per l’iterazione variata, come attestano i tre colori primari e gli elementi con cui elabora i suoi bassorilievi e le sue sculture.
A ben guardare, ciò che viene evidenziato da questo confronto è che nel discorso di Eusebi la dominante è una palese joie de vivre, che contrasta con il discorso di Amaral permeato da una dolente coscienza dell’inarrestabile vis corrosiva del tempo, che l’artista ben restituisce sia con l’utilizzo del materismo informale come polpa in decomposizione sia con il non finito delle sue teste in gabbia.
Giorgio Di Genova
Florilegio è un termine utilizzato in letteratura per indicare una raccolta di opere o brani scelti di uno o più scrittori. La sua etimologia (flos-floris, fiore + lègere, scegliere) rimanda ad una raccolta di fiori scelti dal “campo” della letteratura. E’ ovvio che nella presente occasione il “campo” nel quale ho operato la mia scelta è quello dell’arte. Nella fattispecie ho inteso selezionare alcuni “fiori”della pittura e della scultura di 10 artisti col fine di proporre una sineddoche, assolutamente paradigmatica, della complessa dialettica della varietà dei linguaggi e delle relative declinazioni dell’arte contemporanea. Naturalmente il presente “decalogo” è parziale e soggettivo, in quanto tanti altri se ne sarebbero potuti combinare con altri artisti. Ma, pur non essendo nessuna mostra perfetta, né esaustiva, come ho spesso ribadito, ogni mostra, pur nella sua particolarità, è utile a far riflettere e nel migliore dei casi comprendere la ricchezza della produzione artistica odierna. Specialmente quando le scelte sono varie, come la presente. Infatti i magnifici 10 qui radunati provengono da diverse città e appartengono a diverse generazioni.
Il percorso di questa sineddoche è contrassegnato da soluzioni iconiche, anche metamorfiche e simboliche, ed aniconiche, talora con forti componenti geometriche, nonché con slittamenti oggettuali in ambedue i versanti, come vedremo.
La ratio geometrica governa Maurizio Attisani, il quale comprime la profondità spaziale di precedenti vedute paesistiche in articolate costruzioni di spazi/ambienti cromo-geometrici, ora di grande limpidezza, anche quando l’incastro delle colorate forme geometriche, abbandonandosi all’horror vacui, sembrano voler essere una risposta al neoplasticismo. La sua ottica euclidea si sposa felicemente al colore, finendo con condizionare anche le forme delle immagini umane.
Renzo Eusebi, pur provenendo da una stagione materica, che, influenzata da Burri ha conosciuto anche la commistione di pittura con panni e spaghi, dopo frequenti affondi monocromatici, è approdato ad una ratio geometrica, in cui ha depurato le haute pâtes, sostituendole a elementi geometrici, per lo più quadrati, talora striati, applicati su superfici in positure anche inclinate, per ottenere virtualmente tensioni dinamiche, accentuate da bande diagonali, o da intrecci di linee curve diversamente direzionate, a contraddire le stesure compatte cromatiche in giallo, rosso, celeste.
Il celeste è stato a lungo il colore prediletto da Adriana Pignataro, quando ella intendeva esprimere con i suoi collages gli Strappi di luce, di cui qui si propone un esempio. Nella sua pittura le morfologie di libera geometria spesso mantengono la cognizione degli strappi collagistici, anche nel contesto di una diversa concezione dello spazio, che ora sembra alludere a visioni sottomarine ed ora si fa addirittura trasparente nelle opere in plexiglas.
A seguito del Manifesto tecnico della scultura futurista di Boccioni del 1912 l’arte è diventata onnivora[1].
Si suole far finire il Futurismo nel 1944 con la morte di Marinetti. Ma le cose stanno diversamente. Non solo dopo il 1944 il Futurismo ha proseguito con tanti artisti[2] ed ora continua con Antonio Fiore, battezzato appunto da Monachesi Unico fiore Agrà (Ufagrà). Il pittore di Segni si è lanciato con la sua immaginazione in dinamici viaggi cosmici affidati, sulla scia delle iridescenze di Balla, a dinamici ribollimenti magmatici di onde e ascensionali lingue dai colori accesi e pertanto private delle trasparenze balliane. Nel 2004 tra questi ribollimenti è comparso, imbullonato secondo l’esempio dei famosi libri di latta futuristi, una sagoma in ferro di una nave spaziale. Dopo sono cominciati a entrare nella opere celebrative, quali quella del 2009 per il Centenario del Futurismo e quella del 2010 per i 150 anni dell’Unità d’Italia, anche collages, senza tuttavia mai reificare la pittura al di là della serie dei quadri sagomati, di cui si propone un esempio.
Chi invece, dopo una fantasticata rivisitazione del lessico futurista, giunge ad un’esuberanza polimaterica è Vito Sardano, dapprima in una pittura reificata in composizioni a bassorilievo di parageometria, scandite da oggetti già utilizzati nel precedente lavoro di provetto progettista industriale[3], i quali negli anni ’90 saltano giù dalle superfici per accorparsi nella tridimensionalità di colorati assemblaggi scultorei, tipo Episodi ricorrenti del 1999. In seguito essi vengono calibratamente incorporati in intrecci tubolari, talora di sottile eco viscerale, in opere tendenti al bianco ritmate da piccoli segni nella suggestiva serie To over Shot. E’ il primo passo (si sa, l’appetito vien mangiando) verso gli ambienti UFO[4].
E già che siamo in tema di reificazione pittorica, il discorso non può che proseguire con Anna Donati Iskra, altra artista che nelle sue opere ha fatto riemergere precedenti esperienze di lavoro nel campo della moda. Infatti l’artista marchigiana, dopo una lunga e valida stagione di dipinti di geometriche trasparenze cromatiche, di cui qui si offre un roseo esempio di forte suggestione floreale, vero e proprio incunabolo delle sue sculture in vetro del 2004, è tornata alla stoffa[5]. Infatti nelle tre opere qui proposte i panneggi sono affidati ad annodamenti di panni reali. I ricchi giochi cromatici e la geometrie trasparenti si tramutano nell’impatto dei monocromi, senza smarrire gli esiti dinamici, che hanno diversi esiti, come incurvato dal vento nel bianco, molto più mosso nel nero e scontrosamente ripiegato in alto nel rosso, alle cui pieghe un filo, attraversandolo, fa da controcanto.
Il panno è utilizzato anche da Gianfranco Mascelli, il quale ricorre spesso al vetro, talora accorpandone frammenti a mo’ di macerie, com’è sull’angolo di base del quadrato Oltre 2, ruotato di 90°. Mascelli parla per simboli sintetici, raggiungendo così una pregnanza semantica senza inutili fronzoli. E, se in Oltre 2 le macerie vetrose alludono ad un mondo in rovina, nel periodo dell’utilizzo dei tessuti altri sono i traslati[6]. In Welcome to Los Angeles è una bandiera a stelle e strisce rattrappita su se stessa a simboleggiare un giudizio antitetico alla celebrazione tipica del vessillo disteso al vento, giudizio sottolineato anche dal titolo sottilmente ironico: a Los Angeles è Hollywood. Il paesaggio Granoalla lontana ricorda Christo, qui la bandiera statunitense è una risposta alla serie Flag di Jasper Johns. Tuttavia l’apice del suo parlar simbolico Gianfranco lo raggiunge nei due occhiali JL e JLD, il secondo con una lente incrinata: in due immagini riesce a condensare l’intera vicenda esistenziale di John Lennon.
Lo scultore Salvatore Sava si ispira alla natura, con cui egli ha a che fare quotidianamente, per restituire simbolicamente i suoi cicli, dalla semina alla crescita. Con pochi elementi ricorrenti, quali la pietra leccese e l’acciaio inox, egli apre una sorta di oblò, con tanto di ante per serrarlo, con Indiadolcenera, sorta di trittico circolare, che, allorché è spalancato, rivela l’esplosione del verde di natura. Altrove la pietra leccese gli serve per realizzare semi attraversati da filiformi steli dai diversi andamenti in acciaio, acciaio che altrove mima ramificazioni costellate da piccoli fiori di pietra e disposte liberamente nello spazio (Florobarocco), oppure in verticali e diagonali rette, spoglie di qualsivoglia altra aggiunta, se si escludono i vertici a T, studiatamente articolate nello spazio a restituire un organizzato intreccio di Spighe.
Oblò sono anche i dipinti di Rosario Genovese, col quale torniamo non solo alla pittura, ma anche all’iconismo. Genovese predilige rivolgersi al cielo stellato. Dapprima ha cercato di restituire graficamente una galassia a forma di spola (la Galassia di Andromeda?), poi le stelle delle costellazioni, ma caricandole con il suo immaginario di morfemi e figure, anche grottesche, suggerite dai miti di riferimento dei loro nomi. Il cielo si scruta con il telescopio. Da qui derivano i tondi in cui l’artista catanese blocca il suo brodo immaginario, così come le tonalità monocrome si adeguano al colore delle stelle, per cui Betelgeuse della costellazione Orione[7] è rossa, mentre Alfa Virginis, ovvero Spica della Vergine, in quanto formata da 2 stelle azzurre, è raffigurata come un vortice di azzurri. La circolarità del resto è tipica di queste tappe di immaginativo scrutamento del firmamento ed infatti ritorna in Stella Nera, che si riferisce ai misteriosi buchi neri, mistero che Genovese immagina come “stracci” cosmici inghiottiti da un vortice.
L’iconismo torna in modi più evidenti nella scultura di Alba Gonzales, che alterna soluzioni classicheggianti ad altre di metamorfico simbolismo, con qualche fissità metafisica, com’è nella dantesca coppia di Paolo e Francesca, giocata su patine di due tonalità. Del resto, nonostante i suoi metamorfismi attraverso cui intende denunciare la bestialità umana e la conflittualità tra essere e apparire, com’è in Sfinge e colomba, con soluzioni di robusta inventività (le maschere, la coda/serpente), Alba, che ha praticato la danza classica, proprio la memoria della classicità non riesce a reprimere. E se una volta erano le memorie dei sarcofagi etruschi con sopra coppie di sposi, qui è la sfinge egizia, mentre altrove riemerge la tradizione greco-romana, com’è, nonostante le patine verdastre, nei nudi ed in gradi diversi in quello ritto allo specchio (Verità senza pudore) ed in quello silvano con i piedi equini (Suoni del bosco), seduto su un tronco topos[8], accanto ad una civetta[9].
Non ci si stupisca se il mio discorso è partito da opere aniconiche per arrivare a quelle iconiche. Nella lunga querelle su quali in arte quali tra organicità e astrazione, per riprendere termini usati da Bianchi Bandinelli in un saggio, del 1956, precedente sia l’uno o l’altro , io sono propenso a credere che l’astrazione di motivi decorativi preceda l’avvento dell’iconismo, estraneo alla mente degli uomini delle età remote. Per giungere a concepire aspetti che a noi sembrano elementari (p. es. il profilo) è stata necessaria una lunga elaborazione simbolico-concettuale. Tra vedere e discernere c’è un abisso, come ha esperito quell’antropologo che, per studiare i tratti fisionomici di un africano, ne disegnò il profilo e, quando lo videro gli appartenenti alla tribù, protestarono perché mancava mezza testa. Si sa, che l’arte totemica (e non solo, si pensi alle icone russe) è frontale e per certe popolazioni è inconcepibile la visione laterale, cioè il profilo che pure nell’antico Egitto i pittori usavano porre su corpi frontali per indicare il movimento. Bastino questi pochi esempi a dimostrare che il linguaggio dell’arte è sempre un’astrazione. Un’astrazione che si modifica con il progredire della mente, ma resta sempre astrazione, anche quando è iconica.
Giorgio Di Genova[1] E’ dopo la pubblicazione del manifesto che Braque ha introdotto nella pittura il papier collé e Picasso il collage, mentre Boccioni, dal suo canto, avviava i suoi assemblages, esposti anche a Firenze nel 1914 presso la Libreria Gonnelli con il coinvolgimento nell’allestimento del quattordicenne Primo Conti, spianando così la strada ai futuristi fiorentini che alcuni anni dopo si riunirono nella Pattuglia Azzurra.
[2] Da Benedetto a Peruzzi e con diversi ritorni: Severini, Oriani e Monachesi, che ha dato vita al Futurismo Agravitazionale (Agrà).
[3] Aste lignee e metalliche, dischetti e rocchetti industriali, bulloni, tondini, sfere, guanti di lavoro ed altro ancora.
[4] Tra essi spicca Dalla terra Marte Pianeta (2004.2010), popolato da grotteschi extraterrestri dotati di armi con intermittenti lucette rosse e nel dicembre 2012, in occasione del Premio Internazionale Lìmen Arte calato a Vibo valentia , su mio invito, in una sala di Palazzo Gagliardi.
[5] Ma diversamente dal 2001, anno in cui realizzò dipinti con panneggi annodati.
[6] Per esempio, nel paesaggio Grano è una “tenda” gialla che sistemata a coprire la metà inferiore vuole significare una distesa di spighe.
[7] Betelgeuse (Il nome viene dall’arabo e significa “ascella” o “spalla del Gigante”) è una stella rossa, seconda a Riegel per luminosità, della costellazione che è stata battezzata col nome del gigante cacciatore Orione.
[8] In Lisippo e Policleto i tronchi di albero sono in genere verticali e collocati accanto alle gambe delle statue per palese supporto statico.
[9] Altro elemento che rimanda alla classicità: la civetta era il simbolo della dea Minerva.
PARADIGMATICO SPACCATO DI LINGUAGGI ODIERNI
Da un paio di secoli, tramontata l’epoca della committenza sia pubblica che religiosa, che richiedeva all’artista di esprimersi secondo la koinè dominante[1], via via l’artista è divenuto il committente di se stesso. La conseguenza è stata una progressiva frantumazione del linguaggio che ha raggiunto il suo apice nel ‘900, permettendo un’estrema libertà dei codici espressivi ed esecutivi.
Ovviamente le differenziazioni linguistiche si sono succedute a ritmo talvolta sfrenato generazione dopo generazione, come ho tentato di indicare e ricostruire nella mia Storia dell’arte italiana del ‘900, appunto per generazioni.
Convinto che il confronto sia utile a far comprendere l’essenza dell’arte contemporanea, ho voluto riunire nella presente mostra 7artisti nati negli anni Trenta e 8 nati negli anni Quaranta, generazioni che, nonostante l’individuale parcellizzazione espressiva, hanno diversi sostrati che le connotano.
La GAT, piuttosto sperimentale ed innovativa, ha avuto la sua chiave di volta negli anni Sessanta, anche per impulso di diversi artisti. Infatti ad essa appartengono tutti i componenti dei neocinetici Gruppo T (Miriorama) di Milano e Gruppo N di Padova. Ovviamente nel contempo s’è affermato un proliferare di esperienze concettuali, poveriste, comportamentali, neogeometriche, informali, neodadaiste in contrapposizione a “variate e svariate proposizioni iconiche”, come notavo anni fa[2].
Legittima erede della precedente è la GAQ. Essa ha conosciuto purtroppo operazioni di becero mercantilismo, che negli iniziali anni Ottanta sulla favola del “ritorno alla pittura” ha portato con la Transavanguardia alla ribalta degli incapaci tecnicamente, a cui s’è contrapposto il conservatorismo del recupero dell’Accademia con la Pittura Colta, l’Anacronismo e la Nuova Maniera Italiana, che tuttavia non sono riuscite a soffocare la spinta sperimentale di molti altri cogenerazionali.
Come sempre ogni periodo ha la sua zavorra, la quale col tempo viene sommersa dalle nuove istanze, specialmente se sono più autentiche, valide e non condizionate da opportunismo e strategie di mercato, il quale per lo più non apprezza qualità e autenticità finendo per renderle semiclandestine ed in qualche caso totalmente clandestine.
E’ in opposizione a tale situazione che per la presente occasione ho voluto riunire 15 autentici artisti, scelti per la varietà e libertà linguistica, espressiva (e non di rado tecnica) col fine di dimostrare, seppur parzialmente, ovvero paradigmaticamente, quanto di valido c’è al di là dei “soliti noti”, non tutti peraltro degni della notorietà che godono.
Il breve tragitto che propongo attraversa soluzioni iconiche, aniconiche, sperimentali, metamorfiche, neofuturiste, neopop, oggettuali, con taluni connubi innovativi linguistici, com’è per il discorso iconico/informale di Fernando Rea, il quale attinge immagini da rotocalchi per “dissacrarne” il malizioso messaggio con interventi di uno spontaneo gestualismo, a cui si potrebbe contrapporre la tecnica di Edoardo Stramacchia, il quale incolla sulla tela strips di fumetti dell’universo Disney, che poi ricopre con la pittura in modo da far riemergere visivamente le sagome dei relativi personaggi affogati nei colori.
Naturalmente anche chi è più incline all’iconismo giunge a declinazioni personalizzate. Così è per Mariangelo Zappitelli, il quale ricontestualizza riferimenti alla realtà in fusioni di spazio esistenziale ed esperienza sensibile per ottenere evocativi racconti multipli, sia in pittura che nei lavori calcografici, in cui talora combina più incisioni. Altrettanto è per il siciliano Franco Cilia, il quale distilla dalle atmosfere visionarie dell’ultimo Turner un lirismo che sovente si accende quasi a voler virare al proprio presente quello sgomento della solitudine umana di fronte all’immensità della natura che provava il romantico Caspar David Friedrich.
Anche la scultrice Alba Gonzales declina l’iconismo, che sempre guida la sua mano quando modella o scalpella, con soluzioni metamorfiche attraverso cui denuncia i riti ed i miti, anche sensuali, ma non solo, della società odierna, in cui umanità e bestialità convivono dietro a maschere esistenziali.
Altro tipo di ambivalenza, nella fattispecie spaziale, è quella che attrae sin dagli esordi Renato Fascetti, il quale dalle complesse opere in nylon degli anni Sessanta è approdato ad altri effetti, sovrapponendo più superfici trasparenti dipinte con taches cromatiche variate in modo da ottenere dialettiche profondità visive.
Con lui siamo agli antipodi delle spazialità cosmiche di Antonio Fiore, ribattezzato Ufagrà da Sante Monachesi, spazialità di fiammeggiante dinamismo pittografico, memore della lezione del Futurismo di Balla, ma riveduto e corretto dal suo gioioso temperamento estroverso.
Più meditativa e studiata è la multiforme ricerca pittografica di Francesco Varlotta, il quale coniuga la ratio geometrica ora con strutture modulari, ora con scritture cufiche o arabe, non di rado giocando su incastri in continuum, che talora ama reificare in oggetti plastici.
Dei nati negli anni Trenta non resta che il napoletano Luigi Mazzella, secondo di tre fratelli artisti[3]. Anch’egli nelle sue sculture predilige le soluzioni modulari, che talora raggiungono ora suggestivi incastri meccanomorfi, ora coinvolgenti effetti di organicismo, soprattutto nei grandi formati, anche monumentali, diversi di essi esposti nello scorso marzo in una personale al Maschio Angioino di Napoli. Allievo del grande Tomai, Luigi ha saputo declinare le forme secondo ritmiche di varie morfologie e di superfici sapientemente movimentate.
Del drappello dei nati negli anni Quaranta, oltre ai citati Cilia e Stramacchia, sono qui presenti Corrado Bonicatti, Antonella Cappuccio e Gabriella Di Trani, tre differenti voci dell’ottica iconica. Se Bonicatti propone una nuova ed originale concezione del paesaggio urbano con le sue silenti e sospese visioni prevalentmente ispirate a Roma, ma ad una Roma allagata di cui restituisce angoli e spazi con edificazioni, il cui rispecchiarsi sul pelo dell’acqua accresce il metafisico spiazzamento delle vedute, la Cappuccio, già esponente del gruppo Narciso Arte, ottiene altro tipo di rispecchiamento, incidendo e dipingendo su superfici riflettenti di fronte alle quali l’immagine del fruitore finisce per essere inglobata tra quelle delle scene, ma in modo più dialettico rispetto accanto alle immagini in carta velina che Pistoletto applicava su lastre di inox specchiante.
Dal suo canto Gabriella Di Trani propone due opere sagomate del suo tipico discorso erede della pop art, in quanto anche ella attinge ai mass-media, ma con un’ottica orientata a simbologie semanticamente personalizzate, come anche fa nelle performances e nei suoi suggestivi ambienti, non di rado con pinguini protagonisti.
Al versante delle metamorfosi cromatiche appartengono Renata Rampazzi e Franco Paletta, ovviamente con diverse declinazioni. La Rampazzi sa estrarre dalla sua pittura effetti ora di lirismo atmosferica ed ora di carnale sensualità, per lo più tendenti al monocromo, quando non lo sono effettivamente, ancorché modulati da sapienti cangiantismi che fanno respirare l’insieme. Anche Paletta punta su cromatismi cangianti, ma lo fa nella scultura, quasi a voler dotare la pittura di effetti plastici e oggettivamente spaziali, a ribaltamento delle precedenti esperienze della serie di Pitture sotto vuoto, che nascondevano le percettibili forme plastiche sottostanti. Ora, utilizzando nastri metallici, egli “disegna” nello spazio morfologie varie, talora anche annodate, e nel contempo reifica la pittura con appropriati colpi di luce, a dimostrazione che si può anche disegnare e dipingere nello spazio. come si può fare arte con ogni materiale. Ed è ciò che fa Vittorio Fava, implacabile raccoglitore di carte antiche (e non solo) ed estroso elaboratore di esse, in piccoli formati, tipo i suoi biglietti da visita realizzati con gusci di uova che aperti si possono sfogliare, con caratteri tipografici in piombo a mo’ di copertine di minilibri, o in formati enormi, quale il librone su Roma di oltre tre metri con disegni, scritte, foto, piume, oggetti di ogni sorta incollati su copertina e fogli che richiedono molta forza per essere sollevati. Gran stregone della trasformazione, Fava muta la funzione d’uso di ciascun oggetto. Ogni elemento nell’insieme viene ricodificato in qualcos’altro, così anche nelle sue combinazioni imprevedibili dei suoi mobili, in cui ottiene composizioni che avrebbero entusiasmato l’autore dei Merzbau Kurt Schwitters. Ecco un’ulteriore conferma dell’onnivoracità dell’arte contemporanea.
Ancora una volta mi piace ricordare che l’arte nasce dall’arte, ma che è necessario rinnovare in continuazione il linguaggio codificato per renderlo attuale. Gli esempi qui proposti, anche se cautamente indicativi, perché troppi altri ce ne sono (dalle opere cinetiche alle performances, dai video alle installazioni, ecc.), spero diano un’idea di quanto l’arte contemporanea sia linguisticamente frantumata. Ci saranno senza dubbio alcune opere che coinvolgeranno il singolo fruitore. Ebbene, è da quelle che è utile avviare il lungo e complicato tragitto per apprezzare la plurilinguistica produzione artistica dell’oggi.
Giorgio Di Genova[1] Per esemplificare nel ‘300 era il gotico, nel ‘400 il purovisibilismo rinascimentale, nel ‘500 il manierismo, nel ‘600 il barocco, nel ‘700 il rococò e poi il neoclassicismo..
[2] Precisando che tra esse “non sono mancati interessanti accenti di ‘nuova figurazione’, di arte fantastica, con collateralità neosurrealistiche, nonché sviluppi ulteriori scaturiti dal ceppo dell’arte neorealista con declinazioni in qualche caso calate nelle speranze libertarie della contestazione del 1968, che, sulle ali di slogan tipo ‘L’immaginazione al potere’ e ‘E’ vietato vietare’, intendevano rinnovare in direzione antidogmatica, non di rado con l’ausilio del proiettore, il linguaggio della sinistra ancora attestata su posizioni vetero-marxiste” (cfr. Generazione anni Trenta, Bora, Bologna 2000, p. 8).
[3] Gli altri sono il plus âgé Rosario, pittore, ed il moins âgé Elio, pittore e scultore.
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